Avvocato Brescia | Infedeltà del coniuge: tollerare il tradimento non giustifica il rigetto della domanda di addebito della separazione
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Infedeltà del coniuge: tollerare il tradimento non giustifica il rigetto della domanda di addebito della separazione

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Infedeltà del coniuge: tollerare il tradimento non giustifica il rigetto della domanda di addebito della separazione

Il marito che tollera il tradimento della moglie non costituisce motivo sufficiente per giustificare il rigetto  della domanda di addebito della separazione. Secondo i giudici della Suprema Corte, bisogna infatti prendere in considerazione la successiva evoluzione della relazione coniugale, facendo particolare attenzione alla verifica o meno di nuove violazioni del dovere di fedeltà e quale sia stata la reazione dell’altro coniuge.

Solamente se risulta che a seguito della cessazione della relazione la vita coniugale sia ripresa regolarmente senza ulteriori violazioni del dovere di fedeltà, o se viene verificato che la donna ha intrapreso altre relazioni extraconiugali senza che il marito vi abbia dato importanza, si potrebbe allora giungere alla conclusione che non sono state le infedeltà a impedire la prosecuzione della convivenza.

Così, in sintesi, si sono espressi gli Ermellini con la sentenza Cassazione civile, sez. I, 2 settembre 2022, n. 25966, a conclusione di un noto caso giudiziario che ha coinvolto la famiglia Ferragamo.

Insomma, per l’istituto dell’addebito della separazione è necessario:

  • dimostrare la violazione di uno dei doveri coniugali
  • ricondurre a tale violazione la causa della separazione.

Cerchiamo tuttavia di riepilogare che cosa è avvenuto in sede di processo e come si sia arrivati alla decisione della Cassazione.

Il caso Ferragamo

Il Tribunale di Firenze il 2 dicembre 2015 aveva pronunciato la separazione personale dei due coniugi, poi divenuta definitiva il 12 dicembre 2018, con cui aveva anche dichiarato inammissibile la domanda di addebito proposta dal marito, disponendo l’affidamento condivisione del figlio minore ad entrambi i genitori, con collocamento presso la madre. La sentenza ha poi posto a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento del coniuge con versamento di un assegno mensile di 20.000 euro e il mantenimento del figlio mediante il versamento dell’assegno mensile di 500 euro e la sopportazione del 100% delle spese straordinarie necessarie per il minore.

Con sentenza del 5 maggio 2020, la Corte d’Appello di Firenze ha accolto parzialmente l’impugnazione della donna e l’appello incidentale del marito: l’assegno dovuto per il mantenimento della donna viene rideterminato in 60.000 euro mensili e quello per il mantenimento del minore in 5.000 euro, progressivamente riviste in aumento.

Il marito ricorre quindi per Cassazione, con i giudici della Suprema Corte che accolgono il ricorso cassando con rinvio al sentenza impugnata.

La condotta della moglie

Sintetizzando quali siano le valutazioni assunte dai giudici della Suprema Corte, ricordiamo come la Corte di legittimità non abbia ritenuto condivisibile l’affermazione secondo cui l’accettazione da parte del ricorrente dei comportamenti lesivi del dovere di fedeltà, tenuti dalla moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda di separazione, tali da permettere di ritenere che il marito non li considerasse sufficienti da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, fossero in grado di escludere la possibilità di far valere – come causa di addebito – analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla stessa donna.

I giudici rammentano quindi come in tema di separazione personale dei coniugi la dichiarazione di addebito implica la prova secondo cui la crisi coniugale irreversibile è riconducibile esclusivamente alla condotta di uno o di entrambi i coniugi, quale comportamento consapevole e volontario contro i doveri che sorgono dal matrimonio, ovvero che sussista un nesso di causa tra i comportamenti addebitati e il determinarsi dell’intollerabilità del prolungamento della convenienza.

Questo principio è stato considerato applicabile in caso di mancata osservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale. Trattandosi di una violazione grave, che di norma non permette la prosecuzione della convivenza, è stata ritenuta di regola sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, salvo che non si accerti che l’infedeltà non ha costituito la causa efficiente della crisi coniugale, essendosi se mai verificata in presenza di un deterioramento dei rapporti già irrimediabilmente in atto in un contesto di convivenza solo formale.

Dunque, grava sulla parte che richiede l’addebito della separazione all’altro coniuge, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Spetta invece a chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi l’inidoneità dell’infedeltà a determinare l’intollerabilità della convivenza, fornire la prova delle circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire dell’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà.

La tolleranza del coniuge

Ai fini dell’accertamento di cui si è detto è considerata come irrilevante la prova della tolleranza manifestata da un coniuge nei confronti della condotta infedele tenuta dall’altro. Si ritiene invece che la tolleranza manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda potesse impedirgli di far valere la violazione del dovere di fedeltà, in quanto fosse stato dedotto e dimostrato che la predetta relazione non aveva costituito causa della crisi coniugale, all’epoca già in atto e mai più sanata. Ovvero, si legge ancora, che la stessa fosse rimasta un episodio isolato, dovuto ad un momentaneo appannamento del vincolo affettivo tra i coniugi, ma poi superato da una piena e completa ripresa dei rapporti tra gli stessi.

Dinanzi alla domanda di addebito, invece, il ricorrente aveva allegato e richiesto di essere ammesso a provare che la predetta relazione era stata seguita da altre, intraprese successivamente alla cessazione della prima e fino all’instaurazione del giudizio di separazione, lasciando così intendere che la tolleranza da lui inizialmente manifestata nei confronti della condotta del coniuge era venuta meno proprio a causa della reiterata violazione del dovere di fedeltà da parte della moglie che, di fatti, aveva determinato il fallimento del matrimonio.

Insomma, l’atteggiamento tenuto dal marito nei confronti della prima relazione non poteva essere considerato sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di addebito della separazione. Di contro, proseguono i giudici, bisogna prendere in esame la successiva evoluzione del rapporto coniugale e, in particolare, accertare se si fossero verificate nuove violazioni del dovere di fedeltà da parte della moglie e quale fosse stata la reazione del marito.

Solamente se risulta che dopo la cessazione della relazione la vita coniugale era ripresa regolarmente senza ulteriori violazioni del dovere di fedeltà, o che la donna avesse intrapreso altre relazioni extraconiugali senza che l’uomo vi avesse dato importanza, si sarebbe potuto concludere che non erano state le predette infedeltà ad impedire la prosecuzione della convivenza.