Disprezzare la propria partner integra il reato di maltrattamento
Con sentenza Cass. pen. Sez. VI, 3 novembre 2022, n. 41568, si afferma il principio secondo cui è configurabile il reato di maltrattamenti a danno della partner in presenza del comportamento del marito, consistente in una pesante condotta ingiuriosa e violenta contro la persona offesa, a cui viene costantemente ostentata la frequenza di rapporti con altre donne da parte del reo. Una condotta, accertano i giudici, accompagnata dal disprezzo manifesto della persona offesa, legata al maltrattante da una relazione stabile che implica un obbligo di reciproco rispetto.
I maltrattamenti contro familiari e conviventi
La pronuncia della Suprema Corte ruota intorno all’analisi dell’art. 572 c.p., rubricato Maltrattamenti contro familiari e conviventi, secondo cui:
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Giova qui ricordare come la norma sia rubricata espressamente in riferimento a familiari e conviventi, e come il tenore letterale della stessa indichi non solamente la persona della famiglia quanto anche la persona comunque convivente. Anche in virtù di tale richiamo – oltre che dell’orientamento consolidato giurisprudenziale favorevole in questo senso – ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia condotta ai danni di persona convivente more uxorio, considerato che il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla famiglia deve intendersi riferito a ogni consorzio di persone tra cui, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la famiglia di fatto.
La convivenza
Se quanto sopra è ben attestato, sicuramente più controversia è la questione legata alla configurabilità o meno del delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. in caso di cessazione o di assenza della convivenza.
In questo scenario, parte della giurisprudenza afferma che, in realtà, i maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. siano configurabili solamente fino a quando la convivenza non è cessata (rilevano, evidentemente, altre ipotesi di reato).
Di contro, sussiste l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612-bis co. 2 in presenza di comportamenti che, sorti all’interno di una famiglia o determinati dalla sua esistenza o dal suo sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvivenza cessazione del vincolo familiare e affettivo o dalla sua attualità temporale.
Il processo
Ciò rammentato, con la sentenza in oggetto l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione contro la pronuncia della Corte di appello, con cui si confermava la decisione tramite la quale lo stesso era stato ritenuto responsabile del reato ex art. 572 c.p. ai danni della convivente.
Questi i tre motivi del ricorso:
- la Corte di merito avrebbe erroneamente considerato due episodi di violenza fisica distanti nel tempo e contraddistinti da specifici moventi senza che la parte offesa abbia individuato altri specifici episodi all’interno di una relazione comunque conflittuale e burrascosa che, come tale, non prevedeva alcun obbligo di fedeltà, rispetto al quale pertanto la relazione con altre persone non poteva costituire ragione di rimprovero e causa di umiliazione
- la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla mancata esclusione della recidiva riferita a condanne per cui era intervenuta causa di estinzione del reato ex art. 167 c.p. e art. 445 c.p. e, in ogni caso, in assenza di una specifica valutazione sulla maggiore colpevolezza rispetto a una risalente condanna per fatto del 2009, commesso in giovanissima età
- il trattamento sanzionatorio che ha tenuto genericamente in considerazione del solo risalente precedente e non del comportamento resipiscente del ricorrente sul fatto per cui si è proceduto.
La decisione
Il ricorso in Cassazione è stato ritenuto inammissibile.
Quanto al primo motivo, i giudici di legittimità hanno sottolineato un’evidente discrepanza tra la descrizione dei fatti presentata dal ricorrente e l’articolata e perdurante condotta vessatoria ricostruita dal doppio conforme accertamento (del Giudice di primo grado e del Giudice di secondo grado) consistita in una pesante condotta violenta e ingiuriosa ai danni della persona offesa alla quale non può essere sottratta la frequenza ostentata dal ricorrente di rapporti con altre donne, volutamente accompagnata dal disprezzo manifestato della stessa persona offesa, che a lui risulterebbe essere legata da una stabile relazione implicante un obbligo di reciproco rispetto. La Cassazione, quindi, ha confermato la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti nel caso di specie, in linea con i giudici di merito.
Il secondo motivo è stato ritenuto generico, non essendo stata devoluta la specifica questione in appello.
Infine, il terzo motivo è stato giudicato al pari di una generica contestazione sul corretto esercizio dei poteri discrezionali, demandati esclusivamente al giudice di merito, il quale ha considerato non solamente il precedente penale a carico del ricorrente, quanto anche la complessiva gravità oggettiva e soggettiva del reato, anche tenuto conto della durata nel tempo della condotta.
Per questi motivi la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando la sentenza di condanna impugnata e condannando il ricorrente alle spese processuali.