Diffamazione tramite lo stato di WhatsApp: nuova sentenza di condanna dalla Cassazione
Con la recente sentenza n. 33219/2021 la Corte di Cassazione è tornata a esprimersi sulle diffamazioni rivolte attraverso gli strumenti digitali e, in particolar modo, i social network e i sistemi di messaggistica istantanea. Questa volta, ad essere utilizzato come veicolo per la condotta diffamatoria, è stato WhatsApp.
Ricostruiamo dunque brevemente il caso all’attenzione della Suprema Corte per apprezzare in che modo sia stata elaborata la motivazione dei giudici.
Il caso
Il caso trae origine dal comportamento di un uomo che, attraverso il proprio stato di WhatsApp, pubblicava dei contenuti ritenuti lesivi della reputazione di una donna.
Subita la condanna in primo e in secondo grado per il reato di diffamazione, l’uomo ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione lamentando – tra gli altri motivi – l’assenza di una prova certa che i messaggi fossero rivolti espressamente alla donna che lo aveva denunciato e che, in ogni caso, fossero realmente visionabili da tutti i contatti presenti sulla sua rubrica.
Con ulteriore motivo, di cui per brevità non ci occuperemo, si lamentavano invece dei vizi motivazionali e di violazione di legge in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.
La visibilità del contenuto diffamatorio
Iniziamo con l’occuparci della visibilità del contenuto diffamatorio attraverso WhatsApp. L’imputato sosteneva infatti che non vi era prova del fatto che i contenuti fossero effettivamente visionabili da tutti i contatti presenti in rubrica.
In tal senso, la Suprema Corte rammenta come la questione posta dall’imputato sia inammissibile per novità, considerato che il motivo di appello, lamentando l’assenza di prova della diffusività in ragione della mancata dimostrazione che i contatti della rubrica disponessero dell’applicazione (e, come conseguenza, potessero visionare lo stato dell’imputato) è mossa dal contrario presupposto in fatto, ossia che l’imputato non avesse limitato la visione.
Effettivamente, proseguono gli Ermellini, se l’imputato avesse voluto limitare la visibilità del contenuto avrebbe potuto inviare un messaggio privato e personale a uno specifico destinatario, invece di pubblicare il contenuto sullo stato pubblico del proprio profilo.
Il reato di diffamazione
Ricordiamo con l’occasione che nel nostro ordinamento il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 del Codice Penale, secondo cui
Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la muta fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa con non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
Ora, dalla lettura del testo, appaiono chiari i tre presupposti che configurano il reato:
- l’assenza del soggetto offeso e, dunque, l’impossibilità che lo stesso possa percepire in modo diretto la diffamazione. Proprio l’impossibilità di difendersi costituisce, per il legislatore, un presupposto che conduce a una maggiore potenzialità offensiva;
- l’offesa alla reputazione del soggetto attraverso l’uso di parole diffamatorie;
- la presenza di almeno due persone che possono percepire le parole diffamatorie, con esclusione del soggetto agente e della persona offesa. Giurisprudenza prevalente ritiene che il reato in esame possa essere configurato anche nell’ipotesi in cui le parole diffamatorie siano rivolte a una sola persona, se questa le comunichi ad altre.
Diffamazione a mezzo social network
Evidentemente, il reato di diffamazione può configurarsi anche nel momento in cui il contenuto diffamatorio viene diffuso mediante social network, siti internet, blog e altri canali digitali e telematici come – nel caso in commento – WhatsApp.
Più volte, peraltro, è stato accertato in giurisprudenza come tale ipotesi possa configurarsi anche come circostanza aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità nella diffusione dei contenuti diffamatori, con incremento della pena a carico del trasgressore.
Danni da diffamazione mezzo social: patrimoniali e non patrimoniali
Rammentiamo altresì, in conclusione del nostro breve approfondimento sul tema, come a seconda della natura e del livello di diffusione del messaggio denigratorio, la diffamazione possa generare un danno nei confronti della vittima di natura patrimoniale e non patrimoniale.
Per quanto concerne il danno patrimoniale, sarà la vittima a dover fornire la prova del danno subito, come ad esempio può avvenire presentando una copia della documentazione che attesta la riduzione dei redditi conseguenti al fatto diffamatorio.
Per quanto invece riguarda la prova dei danni non patrimoniali, è stato oramai ribadito in modo consolidato come i risarcimenti alla lesione del proprio onore (quale diritto inviolabile leso dalla diffamazione) non possano essere riconosciuti automaticamente, dovendo la vittima provare tale pregiudizio fornendo testimonianze e altri elementi di supporto.