Avvocato Brescia | Comunione de residuo: quali diritti sui beni dell’impresa del coniuge dopo la separazione?
1164
post-template-default,single,single-post,postid-1164,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-4.5,menu-animation-underline-bottom,side_area_over_content,wpb-js-composer js-comp-ver-7.9,vc_responsive
 

Comunione de residuo: quali diritti sui beni dell’impresa del coniuge dopo la separazione?

Comunione de residuo: quali diritti sui beni dell’impresa del coniuge dopo la separazione?

Con Cass. civ. Sez. Unite, Sent. 17/05/2022 n. 15889, i giudici delle Sezioni Unite hanno risolto il contrasto tra la natura reale e obbligatoria del diritto vantato dal coniuge non imprenditore sui beni costituenti l’azienda del coniuge imprenditore dopo la separazione, chiarendo come l’aspettativa sia di natura creditizia e non reale, ammontante al 50% del valore delle attività, quantificabili al momento della richiesta, dedotte le passività.

Il processo

Con atto di citazione una signora conveniva in giudizio il coniuge con cui aveva costituito, nel 1997, una società a responsabilità limitata avente ad oggetto il commercio di macchine industriali, e di cui il coniuge era anche amministratore, oltre che titolare di una quota del 55% del capitale sociale.

Negli anni successivi, con gli utili derivanti dall’attività societaria i coniugi acquistarono ulteriori fondi: nell’ultimo di tali atti di acquisto si dava atto che il relativo immobile era stato acquistato dai coniugi in regime di comunione legale, mentre negli altri atti risultava essere unico acquirente ed intestatario il coniuge. L’attrice, pur intervenuta alla stipula, aveva infatti dichiarato che gli immobili oggetto degli acquisti non rientravano nella comunione dei beni in quanto da considerarsi necessari per l’esercizio della professione del coniuge.

Secondo la donna, essendo successivamente intervenuta pronuncia di separazione giudiziale con sentenza passata in giudicato, si sarebbe dovuta ritenere sciolta la comunione legale tra coniugi, con la conseguenza che gli immobili acquistati dal coniuge erano da considerarsi caduti “ipso iure” in comunione. Per tale motivo l’attrice dichiarava di vantare il suo diritto di comproprietà sui predetti immobili e su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%. La donna sosteneva altresì di essere comproprietaria, sempre per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge oltre che delle quote della citata società ancora intestate al medesimo coniuge.

Sulla base di tale premessa l’attrice citava in giudizio il coniuge chiedendo la divisione di tutti i beni aziendali intestati al convenuto. Resisteva alla domanda il coniuge.

La decisione

Con ordinanza interlocutoria n. 28872/2021, la Seconda Sezione civile ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima relativa alla natura giuridica della c.d. comunione de residuo, partendo dalla tesi, fatta propria della sentenza impugnata, che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito pari alla metà del valore dell’azienda al momento dello scioglimento della comunione, in opposizione alla tesi che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali.

In estrema sintesi, in favore della tesi della natura creditizia del diritto del coniuge non imprenditore, occorrerebbe valorizzare le esigenze sottese all’istituto della comunione de residuo, ovvero quelle del coniuge non imprenditore di vantare una legittima aspettativa sugli incrementi di valore di quei beni, e quelle del coniuge imprenditore di operare liberamente le sue scelte imprenditoriali.

La Corte d’Appello ha però richiamato in motivazione Cass. n. 19567/2008 della Sezione tributaria della stessa Corte di Cassazione, secondo cui si lascerebbe presupporre la preferenza per la natura reale del diritto in questione, essendosi statuito che, in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, entra a far parte della comunione legale dei beni, al momento dello scioglimento della stessa, “determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto”.

Nelle proprie considerazioni, le Sezioni Unite rilevano come accertare se si tratti di un diritto reale ovvero di un diritto di credito diviene rilevante anche ad ulteriori fini ed incide non solo per la posizione dei coniugi, ma anche nei rapporti con i terzi, e soprattutto con i creditori del coniuge imprenditore, e ciò in particolare nel caso in cui la situazione debitoria abbia infine determinato l’insorgenza di una procedura concorsuale.

Riepilogano poi i giudici alcuni dei principali passaggi evolutivi in dottrina e in giurisprudenza, sottolineando come una delle prime occasioni in cui la Corte ebbe a pronunciarsi in tal proposito è stata la Cass. n. 7060/1986, che ha affermato che “allo scioglimento della comunione, del valore di essi (dei beni in comunione de residuo) si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore“, mostrando in tal modo di propendere per la tesi del diritto di credito. tale conclusione è stata poi fatta propria in altre successive pronunce del giudice di legittimità.

È pur vero che non mancano precedenti a sostegno della natura reale del diritto in esame come la Cass. n. 2680/2000 che, a fronte della rivendica della quota avanzata dalla moglie di un fallito su beni appresi dal curatore, ha ritenuto che il fallimento di uno dei coniugi in comunione legale “determina la comunione de residuo, sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa, soltanto rispetto ai beni che dovessero residuare dopo la chiusura della procedura“.

Sintetizzando una serie di riflessioni approfondite, i giudici rammentano come la soluzione adottata sia quella di prevedere accanto ai beni che ricadono in comunione immediata, e che entrano cioè nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, una serie di beni che ricadono in comunione de residuo, restando quindi personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, ma che sono attratti alla disciplina della comunione legale nella misura in cui gli stessi siano sussistenti al momento dello scioglimento della comunione.

Affinché possa insorgere il diritto dell’altro coniuge su detti beni è però necessario che gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento.

In sintesi, ad avviso della Corte la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione deve quindi essere decisa optando per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, “riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività”.

Il principio di diritto

Si afferma così il seguente principio di diritto

Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.