Avvocato Brescia | La CEDU condanna l’Italia per inerzia sul perseguire penalmente i reati di violenza domestica
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La CEDU condanna l’Italia per inerzia sul perseguire penalmente i reati di violenza domestica

La CEDU condanna l’Italia per inerzia sul perseguire penalmente i reati di violenza domestica

Con sentenza n. 32715/19 del 7 luglio 2022 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. I, ha ritenuto all’unanimità che l’Italia abbia violato l’aspetto sostanziale dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in relazione al periodo dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008, e abbia violato l’aspetto procedurale dell’articolo 3 della stessa Convenzione.

Il caso su cui si è espressa la Corte ha riguardato la violenza domestica a cui era stata sottoposta la ricorrente, dal marito. La donna si era lamentata del fatto che lo Stato italiano non l’avesse protetta e assistita, sostenendo altresì che le autorità non avrebbero agito con la diligenza e la tempestività richieste, tanto che il perseguimento di diversi reati non era stato possibile perché nel frattempo gli stessi erano stati dichiarati prescritti.

Il caso

Riassumendo il caso all’esame dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, si riepiloga come il 18 aprile 2004 la donna avesse presentato una prima denuncia penale sostenendo di essere stata aggredita dal marito. Il 19 gennaio 2007 il marito si era recato presso lo studio della moglie per discutere della loro separazione alla presenza del cognato e, durante la discussione, aveva provato ad aggredire la donna, ferendo il cognato alla gamba con un coltello quando quest’ultimo era intervenuto per difenderla.

La donna nella stessa giornata aveva sporto denuncia in Questura e il giorno successivo i carabinieri avevano informato il pubblico ministero dei reati di cui l’uomo era stato accusato, trasmettendo gli atti delle dichiarazioni rese dalla ricorrente. I carabinieri avevano continuato ad indagare sulle accuse mosse dalla ricorrente nelle denunce presentate il 7 febbraio, il 24 marzo ed il 27 aprile 2007.

Infine, il 24 ottobre 2007 il pubblico ministero ha chiesto al GIP di rinviare a giudizio l’uomo per i reati commessi il 19 gennaio 2007. Sette anni dopo i fatti, il 27 giugno 2014, il Tribunale di Potenza aveva ritenuto l’uomo colpevole delle accuse mosse, condannandolo alla pena di un anno di reclusione per le ferite riportate da L.S. ed alla pena di un anno di reclusione per maltrattamenti ai danni della ricorrente. La sentenza era stata depositata in cancelleria circa nove mesi dopo, nel marzo 2015.

A sua volta, l’uomo aveva impugnato la sentenza di primo grado il 23 maggio 2015. Con sentenza del 10 giugno 2016 la Corte d’Appello, tuttavia, dichiarava estinti per prescrizione i reati per i quali era stato condannato l’ex marito.

Negli anni trascorsi la donna aveva continuato a subire minacce e il 21 ottobre 2008 la polizia aveva chiesto al pubblico ministero di chiedere una misura cautelare, sottolineando che l’uomo si era comportato violentemente nei confronti della ricorrente. In data 21 novembre 2008 il GIP aveva emesso un provvedimento cautelare con cui disponeva l’obbligo di dimora nei confronti del D.P., ma il 20 febbraio 2009 il giudice aveva dichiarato l’inefficacia dell’ordinanza per decorrenza del termine di fase della custodia cautelare non detentiva previsto dal codice di procedura penale.

Intanto, i comportamenti lesivi erano continuati anche negli anni successivi, tanto che il 17 gennaio 2017, D.P. veniva rinviato a giudizio con l’accusa di molestie. Il procedimento è tuttora pendente.

Il ricorso e le norme violate

La donna ricorre a Strasburgo sostenendo che le autorità italiane, pur più volte allertate delle violenze del marito, non avrebbero adottato le misure necessarie e appropriate per proteggerla da un reale e noto pericolo. Non avrebbero altresì impedito il verificarsi di ulteriori violenze domestiche.

Ancora, la osserva che diversi procedimenti erano stati interrotti in quanto i reati erano stati dichiarati prescritti a causa della durata dei processi, e che alcuni erano ancora pendenti.

Per la donna, dunque, le autorità non si erano quindi conformate ai loro obblighi positivi ai sensi della Convenzione.

La decisione della Corte di Strasburgo

Nella sua pronuncia la Corte riconosce che complessivamente il quadro normativo italiano era adeguato a garantire protezione contro atti di violenza da parte di privati, ma ha sottolineato alcuni aspetti critici nella condotta delle autorità.

In particolare, la Corte ha rilevato che in un primo periodo, dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008, le autorità erano venute meno al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di una reiterazione della violenza contro la ricorrente e di adottare misure operative preventive a mitigare quel rischio, tanto che nessuna misura era stata sostanzialmente adottata dalle autorità per tredici mesi.

La valutazione del rischio è stata invece effettuata quando è stata richiesta una misura cautelare, sebbene vi fossero già stati segnali di un’escalation del comportamento violento dell’uomo. A giudizio della Corte, in questo lungo periodo i rischi di violenza contro la ricorrente non erano stati adeguatamente valutati o presi in considerazione.

Dunque, per ciò che concerne tale primo periodo, la Corte ha ritenuto che le autorità avessero fallito nel rispettare il loro obbligo positivo di cui all’articolo 3 consistente nel tutelare la ricorrente dalla violenza domestica commessa dall’uomo, ritenendo violato l’aspetto sostanziale dell’articolo 3 della Convenzione.

Quindi, la Corte di Strasburgo ha anche ribadito che il fatto che l’accusa non fosse soggetta al rischio di possibile prescrizione prevista dalla legge era di fondamentale importanza, sottolineando come amnistie e grazia non dovrebbero essere tollerate nei casi di tortura o maltrattamenti inflitti da funzionari pubblici, e che questo principio è esteso anche agli atti di violenza commessi da privati.

In aggiunta, la Corte ha ritenuto che i reati legati alla violenza domestica, anche se commessi da privati cittadini, dovrebbero essere classificati tra i reati più gravi, ritenendo altresì incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 che gli accertamenti di tali reati cessino con la prescrizione prevista dalla legge derivante dall’inerzia delle autorità.

Così sostenendo, la Corte ha stabilito che l’Italia debba corrispondere alla ricorrente, a titolo di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, la somma di 10.000 euro a titolo di risarcimento dei danni, oltre alla somma di 18,95 euro a titolo di costi e spese vive.